Filmica-mente

Il cinema rappresenta un prodotto culturale complesso con la sua funzione di intrattenimento e di diffusione di messaggi e modelli di comportamento. Al tempo stesso costituisce un fenomeno estetico, definito da alcuni settima arte, e un mezzo comunicativo per eccellenza, in quanto genera un testo che può essere analizzato nei suoi aspetti narrativi, visivi e sonori.

Dal punto di vista psicologico il testo filmico diventa uno strumento in grado di sollecitare nello spettatore risposte emotive, cognitive e comportamentali, occasione per entrare in contatto con ricordi del passato, vissuti non ancora rielaborati e fantasie su mondi possibili, attraverso l’identificazione con i personaggi e il coinvolgimento nella storia.

Questa rubrica rappresenta il tentativo di fornire qualche stimolo per rileggere alcuni film, per soffermarsi su alcune riflessioni, per riappropriarsi di alcuni vissuti…

 


 

 

Occorre un villaggio per ri-educare un uomo

Non così vicino

di Marc Forster

 

Il film di Marc Over si presenta come un remake della versione svedese Mr Ove, a sua volta ispirato al bestseller “L’uomo che metteva in ordine il mondo” dello scrittore svedese Fredrick Backman. Rispetto al precedente riadattamento cinematografico, riesce ad esprimere alcuni temi toccanti conservando un tono narrativo poetico e al tempo stesso lieve. Otto Anderson si delinea come un personaggio rigido e rinchiuso in se stesso, che si rifugia in una serie di rituali per cercare di fronteggiare il dolore legato alla scomparsa della moglie Sonya. Il lutto sembra esacerbato da una serie di altre perdite avvenute nel passato che forse l’incontro con questa donna, vitale ed espansiva, era riuscito parzialmente a tamponare. Dopo il pensionamento le sue giornate sembrano, infatti, scandite dal giro quotidiano di ispezione al vialetto che circonda il complesso residenziale dove vive, nello sforzo di tutelare il rispetto delle regole dei permessi di transito o della corretta classificazione dei rifiuti nella raccolta differenziata; in altri momenti si reca al cimitero per dialogare con la moglie: il perimetro della sua esistenza sembra toccare questo mondo, che si è di fatto ristretto e che è abitato per lui ormai solo da oggetti senza vita. Il suo pensiero ossessivo sembra poi concentrarsi sui tentativi ripetuti di mettere fine alla propria esistenza, che sembrano peraltro fallire per una serie di inconvenienti. L’arrivo di Marisol, del marito e delle bambine, che si trasferiscono in una delle abitazioni vicine, diventa l’evento che irrompe nella sua quotidianità turbandola profondamente. La giovane donna avanza richieste di favori, cui Otto sembra rispondere in modo inizialmente molto evasivo o scocciato: pian piano sembra, però, permetterle di entrare in contatto con lui. Addirittura accetta di darle lezioni di guida e, di fronte alla sua paura, la scuote e, pur con il suo tono brusco e rimproverante, riesce ad offrirle un sostegno adeguato, per superarla: quel condensato dei fatti salienti della sua vita e delle prove superate che le ripete, la stimola a percepirsi capace di affrontare anche quella difficoltà. Da questo momento Otto può cominciare anche a raccontare della sua vita, dell’incontro con Sonya, della perdita del loro bambino e delle difficoltà affrontate insieme per superare i limiti imposti dalla paraplegia. “Basta, dobbiamo ricominciare a vivere” è l’invito che risuona nella mente di Otto con la voce di Sonya; ora può riemergere con forza per provocare in lui un nuovo cambiamento, che si estende anche alle relazioni con gli abitanti del caseggiato, grazie anche ai feed-back provocatori della sua giovane amica sul suo modo di porsi.

“Non così vicino”, il titolo scelto dalle case di distribuzione italiane e particolarmente azzeccato in questo caso, sembra esprimere il grido di Otto nel suo ritrarsi in un guscio di autoisolamento. Questo guscio viene lentamente scalfito dai movimenti di avvicinamento messi in atto da Marisol e poi anche dalle persone che abitano e si muovono nelle case accanto a lui. Parafrasando un noto proverbio africano potremmo concludere che “Occorre un villaggio per ri-educare un uomo” e questo può ancora accadere negli spazi e nei confini di questa contemporaneità.

 

Quando la poesia e la parola riescono ad avvicinare mondi lontani

Io sono Li

 di Andrea Segre

Andrea Segre si cimenta in questo film con il tema dell’immigrazione e del difficile equilibrio fra integrazione e legame con le proprie tradizioni: la vicenda di Li, giovane donna cinese costretta a lavorare per riscattarsi dal debito con la malavita cinese, si intreccia con quella di Bepi, pescatore slavo che frequenta l’osteria di provincia insieme ad altri avventori abituali. Il fotogramma iniziale, con le lanterne immerse dalle donne nella vasca da bagno di una piccola abitazione come rituale x ricordare un antico poeta cinese, costituisce l’immagine chiave che ricorre nel film: gesto simbolico che sembra onorare la poesia e il valore della parola nel avvicinare mondi ed esperienze diverse.

All’inizio la protagonista viene catturata dalla telecamera attraverso brevi riprese che la seguono quasi da dietro, senza inquadrarne il volto nel suo rapido trasferimento dalla fabbrica romana al bar del nord-est veneto: i dialoghi sono brevi, mentre le immagini vengono ritmate dal monologo interiore che racconta le lettere al figlio e al padre rimasti nel paese d’origine, unico modo per raccogliere la fatica di questi momenti. Il regista sembra sottolineare quasi il valore di quelle parole scritte e pronunciate nel silenzio: scrivere a qualcuno costituisce, infatti, un atto liberatorio che permette di alleviare il disagio ed un’esperienza creativa che prolunga la memoria del contatto con l’altro anche quando è lontano. La trama poi si snoda attraverso il graduale inserimento di Li nella piccola sistemazione abitativa gestita dai cinesi e nell’osteria dove svolge il lavoro di barista: le prime interazioni con i pescatori, che frequentano il locale, rivelano la difficoltà della lingua e la lontananza delle culture. E’ possibile superare queste barriere quando la novità dell’altro attrae e permette di affrontare la rischiosità presente al confine con l’altro. Bepi, definito dagli amici “il poeta” per la sua capacità di produrre rime e giochi di parole, si avvicina a Lì con la curiosità di comprendere il suo mondo e con la sua esperienza di migrante; la foto delle lanterne per la festa del poeta che Li gli mostra gli permette di entrare in quel contesto e di regalarle un’immagine familiare: depositare una piccola lanterna rossa nel velo d’acqua, che copre il locale per effetto della marea e dove tutto sembra continuare nella grigia monotonia, significa creare una possibilità nuova di incontro. Questo passaggio può essere riletto anche come originale trasposizione di ciò che accade in un rapporto terapeutico, in quel dinamismo di condivisione ritmica e delicata esplorazione della vita interiore dell’altro che diventa processo creativo, permette uno scambio profondo e può portare al cambiamento.

Nel film la vitalità dell’incontro, arricchito da altri momenti, sembra restituire fluidità e energia alle vite di entrambi i protagonisti: alcune inquadrature di Lì e di Bepi danno spazio e movimento ai loro corpi che esprimono ora una nuova vivacità e la possibilità di rilassarsi nella pausa in barca. Bepi sembra ritrova il piacere di raccontare la sua storia, di introdurla sulla sua barca: il pescare insieme attraverso la ripetizione di quei gesti ritmici e familiari per entrambi crea un legame delicato e profondo, intrecciato di sguardi profondi, di semplici versi e teneri sorrisi.

La narrazione costringe, però, la relazione ad una battuta d’arresto, imposta dai pregiudizi presenti nei due gruppi etnici che richiedono un allontanamento della donna per tutelare i reciproci equilibri. Lì può ritrovare una nuova possibilità di inserimento e ricongiungersi con il figlio, grazie al pagamento del riscatto da parte di un misterioso donatore; Bepi, invece, non riesce a reintegrarsi nel nuovo contesto, ma lascia alla donna un segno del suo legame con lei, il suo casone in mezzo alla laguna. Pur nella drammaticità dell’evoluzione, la scena finale del fuoco appiccato sulla rudimentale costruzione in legno ripropone l’immagine di una enorme lanterna immersa nel mare e celebra il ricordo di ciò che ha unito i due protagonisti e continua a perpetuare la relazione attraverso la poesia e la parola.

 


 

Quando l’appartenenza chiede di essere reinventata

Il figlio dell’altra

di Lorraine Levy

 

“Il figlio dell’altra” si presenta come un film intenso, coinvolgente che tratta alcuni temi significativi e, in qualche modo, li contrappone coraggiosamente facendoli quasi dialogare e provocando domande nello spettatore: il bisogno di un’appartenenza e il senso dell’identità, la relazione fra genitori e figli e il rapporto fra i partner, la nascita come evento biologico e come fatto saliente del ciclo vitale. Queste idee si intrecciano all’interno di un contesto socioculturale variegato e complesso com’è quello della “terra di mezzo” fra territori israeliani e palestinesi.

La trama trae spunto dalla scoperta accidentale dello scambio avvenuto in culla di due bambini appena nati, appartenenti a due etnie diverse, ora entrambi diciottenni: tale notizia, che rimanda ad un evento tanto surreale quanto drammatico, sconvolge il mondo di certezze e sistemi di riferimento di entrambe le famiglie che si trovano a percorrere forzatamente insieme un tratto di questa loro esperienza. Proprio l’accostamento e il sovrapporsi di reazioni e scelte, di scenari tradizionalmente distanti e opposti, eppure ora tanto violentemente vicini e confusi, produce un intreccio di parole, sguardi, ricerca di gesti e offerta di contatti che può essere letto e reinterpretato secondo numerose angolature.

Secondo la psicoterapia della Gestalt il percorso evolutivo dell’individuo comporta la necessità di armonizzare il bisogno di appartenere e l’esigenza di autorealizzarsi e differenziarsi. La possibilità di appartenere si struttura e si consolida attraverso l’esperienza, ripetuta e consolidata, del poter incontrare l’altro con il proprio desiderio riconosciuto e accolto dall’altro e con la pienezza della sensorialità dei corpi: la memoria dei contatti nutrienti assimilati nel tempo costruisce un bagaglio di esperienze intessute di vissuti emotivi e sensazioni corporee che modellano lo stile relazionale. Nella transizione dall’adolescenza all’età adulta il soggetto nella posizione di figlio, che sta armonizzando il senso della propria identità sulla base delle molteplici identificazioni sperimentate, si allontana progressivamente dall’alveo familiare per intraprendere un nuovo viaggio verso la scoperta dell’intimità di una relazione affettiva a due e la ricerca di una propria realizzazione. Il gruppo dei pari consente uno spazio di sperimentazione, che apre orizzonti nuovi. Sull’altro versante, la coppia genitoriale cerca di adattarsi creativamente ai cambiamenti del figlio e riscopre nuovi equilibri rispetto alle proprie modalità di dare e ricevere sostegno.

Nella vicenda narrata la scoperta dell’evento drammatico dello scambio ha l’effetto di creare una fase d’arresto all’interno di questo percorso: l’irrompere della nuova e sconvolgente consapevolezza rispetto all’origine biologica blocca la fluidità dei modi di avvicinarsi all’altro e apre a molte domande rispetto alle proprie identità e percorsi. La dinamica madre – figlio, padre- figlio diventa nuovamente emergente, perché sembra crollare lo sfondo dei contatti precedenti, non più scontati. Anche le relazioni fra pari sembrano meno significative: il tema dell’appartenenza e dell’identità porta a ricercare nuovi contatti che appaiono incerti, frammentati, confusi nello stile e nella direzione. Verso quale madre, padre, fratello, sorella, verso quale figlio, si può orientare il proprio bisogno di riconoscimento?

Molte sequenze nel film mostrano appunto ora la ridondanza di alcuni movimenti, ora l’interrompersi brusco di alcuni gesti che lasciano emergere l’imbarazzo: gli sguardi delle mamme puntati, quasi incollati sul “figlio dell’altra” sembrano dare voce ai pensieri e imitarne il loro sovrapporsi che percepiamo quasi ossessivo; viceversa i corpi che cercano di protendersi verso l’altro svelano la curiosità e il desiderio del contattare l’altro che diviene quasi vergogna quando manca la familiarità con la pelle e il profumo dell’altro.

Nasce il bisogno di cercare altre modalità per ritrovare una vicinanza e un’appartenenza, come il cantare insieme, il preparare i cibo con cura e il consumarlo insieme. La frase finale pronunciata come esortazione all’altro da uno dei ragazzi protagonisti di questa vicenda “Sii il meglio che avrei potuto essere nel mio posto” sembra esprimere la possibilità comunque presente di superare qualsiasi momento critico con la disponibilità ad accogliere pienamente il nuovo che avanza.

 

 


Quando decidere di non fuggire ancora, permette di cambiare veramente

 

Downsizing

di Alexander Payne

Downsizing di Alexander Payne è un film che tenta di affrontare il tema dell’ecosostenibilità e del rispetto dell’ambiente utilizzando l’escamotage della miniaturizzazione in chiave realista come possibile risposta al problema del sovraffollamento umanitario. La possibilità di creare nuove colonie abitative in cui le singole persone accettano di sottoporsi ad un trattamento medico per diventare mini diventa l’occasione per ricominciare una nuova vita e per contribuire a salvare una nuova vita. La trama segue, quindi, le vicende di Paul Safranek, che, inizialmente supportato dalla moglie Audrey, decide di tentare l’avventura e poi si ritrova da solo a confrontarsi con le sfide del nuovo mondo e l’emergere di pregiudizi e difficoltà in realtà molto comuni al vecchio mondo da cui proviene.
Il racconto e il prodotto filmico possono essere analizzati su più livelli.
Una chiave di lettura interessante risulta l’analisi psicologica del percorso evolutivo del protagonista, interpretato da Matt Damon che incarna l’antieroe, il boy next door tipicamente americano. Viene ritratto inizialmente mentre si prende cura della madre, una donna anziana, affetta da fibromialgia, che si propone con tono lamentoso e critico, sdraiata su di un letto in attesa delle cure del figlio. Lo sguardo del regista lo ripresenta, esattamente dieci anni dopo, nella stessa casa accanto alla moglie, anch’essa dolorante e bisognosa di attenzioni: un uomo, appesantito dalla pressione economica e alquanto sbiadito rispetto alla definizione di sé: dal racconto emerge come avesse il desiderio di diventare un medico, poi di fatto ha interrotto gli studi e si occupa di tutela della salute e prevenzione di patologie neuromuscolari in un’azienda. Non si evidenziano particolari interessi o passioni. Anche la moglie appare in questo sfondo piuttosto piatto e uniforme. La scelta di tentare l’avventura di diventare mini e trasfersi nel nuovo mondo sembra l’occasione opportuna per portare novità alla vita della coppia, che appare in una fase di stallo. Proprio la decisione di ritirarsi drammaticamente mostrata dalla moglie quando ormai il trattamento di rimpicciolimento di Paul è divenuto irreversibile svela drammaticamente la fragilità del legame: non c’è discussione o ricerca di una soluzione comune. Il rifiuto di Audrey di proseguire il trattamento viene comunicato telefonicamente senza possibilità di repliche e sancisce la rottura della relazione. Il ritrovarsi da solo e l’impatto con la realtà mini costituisce un evento traumatizzante per Paul: l’aspettativa di ricchezza e novità risulta di fatto rimpicciolita dal ribaltarsi della situazione e la prospettiva della condivisione di coppia si frantuma. La scena in cui gli enormi anelli di fidanzamento, appartenuti da Audrey, vengono scaricati davanti alla minuscola casa destinata ai Safranek fa risaltare il divario fra il passato e la situazione attuale; così come appare drammaticamente emblematica la firma della separazione da parte del minuscolo Paul, che sembra, peraltro, da questo momento in poi adattarsi in modo accomodante riproponendo una modalità di interazione sempre un pochino dimessa e sottotono. Il ritmo narartivo rallenta in questa fase e forse rispecchia pienamente la perdita di prospettive del protagonista. La vera svolta sembra proporsi con l’incontro con l’attivista vietnamita Ngoc Lan Tran, interpretata dall’attrice Hong Chau: la donna, disabile a seguito di un rimpicciolimento forzato durante un periodo di reclusione per motivi ideologici e conseguente tentativo di fuga, lo provoca ad interrogarsi sul mondo parallelo che sta sorgendo accanto alla colonia. Lo scontro con una realtà che rivela povertà di mezzi, ma ricchezza di legami, sembra indurlo nuovamente ad adattarsi per aderire alle aspettative di chi gli sta accanto. Indossare i panni del domestico nel mondo dei ricchi equivale a calarsi subito dopo nei panni dei fondatori della prima colonia norvegese quando si ritrova in contatto con questa realtà: Paul mostra evidentemente il suo stile di atteggiarsi nel mondo, che lo porta ad introiettare il suo bisogno per uniformarsi ai movimenti della massa. Ma proprio l’esperienza di un contatto vero che sta avvenendo fra lui e Ngoc Lan Tran diventa l’occasione per una crescita autentica. In bilico fra il seguire i coloni norvegesi che stanno nuovamente rincorrendo un sogno di rinascita nel rifugio sotterraneo e rimanere accanto alla donna che lo interroga sul senso del loro legame, sceglie finalmente di confrontarsi con la possibilità di una relazione che gli prospetta un modo diverso di interagire con gli altri.


Quando intercettare la storia di un’altra persona, consente di riannodare i fili della propria trama esistenziale

La tenerezza

di Giani Amelio

La tenerezza di Gianni Amelio è un film intenso, in bilico fra sequenze intrise di profonda drammaticità e passaggi delicati, che svelano sentimenti profondi pur se appena accennati.La trama ruota intorno all’incontro fra Lorenzo, anziano avvocato e Michela, giovane donna appena trasferita a Napoli con il marito e i due bimbi piccoli. La condivisione dello spazio del cortile comune alle due abitazioni crea l’occasione per una frequentazione e conoscenza progressiva, interrotta bruscamente dalla violenza del gesto omicida e suicida di Fabio. La tragicità del momento sembra coinvolgere particolarmente Lorenzo che rimane per alcuni giorni ad accudire Michela, in coma in un reparto di rianimazione, fino al suo decesso. Questo tempo diventa un’occasione per lui per ripercorrere un viaggio interiore e riannodare alcuni frammenti della propria storia e delle proprie relazioni. Utilizzando lo sfondo dell’approccio gestaltico, possiamo rileggere alcune dinamiche e costruire un’interpretazione particolare di alcuni temi.La relazione fra le persone può essere descritta, pertanto, come un processo che si realizza all’interno di un campo inteso in senso fenomenologico, in cui ciò che accade nel «qui ed ora» esprime e dà forma ai bisogni degli individui coinvolti e alla capacità di autoregolazione della loro relazione. Il film può essere reinterpretato seguendo, per esempio, l’evoluzione della dinamica padre-figlia e soffermandoci su alcune sequenze. Nell’incipit Lorenzo appare assopito in un letto di ospedale mentre Elena tenta di approcciarsi a lui con alcune domande: il silenzio e l’immobilità del corpo di lui creano un senso di sospensione, quasi di oscurità; l’uscita di scena della donna e il riattivarsi del padre, se da un lato movimentano il ritmo narrativo, mostrano per contrasto come la dinamica relazionale fra Lorenzo ed Elena evidenzi una perdita di interesse e un’incapacità di avvicinarsi all’altro. La sequenza dell’incontro fra Lorenzo e Michela sembra tradurre, invece, quella novità al confine di contatto in grado di attivare la consapevolezza, di creare curiosità. Michela trascina con sé, oltre alla vivacità della sua persona, in questo suo sorridere e muoversi in modo spontaneo e al tempo stesso disarmante, l’energia del gioco dei suoi bimbi che sembrano coinvolgere l’anziano avvocato e stanarlo dalla penombra del suo appartamento. Questo progressivo intrecciarsi delle loro storie subisce un arresto dopo la tragica violenza che non lascia spazio alle parole e che viene coperta dalla pioggia profusa e inesorabile. Lorenzo, visibilmente colpito e addolorato, sembra aggrapparsi alla possibilità di mantenere un contatto almeno visivo con Michela, che giace immobile, incosciente nel reparto di rianimazione: continua a raccontare e lei i brandelli della sua storia, a cercarla nel ricordo e nel sogno, quasi per riannodare il fili della propria esistenza. Elena, dapprima distante dalla vicenda, ricomincia a preoccuparsi per il padre: lo cerca, ritrova le spiegazioni della loro distanza, va a trovare la donna che lui ha amato al posto della madre. La sequenza in cui Elena dà voce alla solitudine del padre per difenderne il comportamento davanti al poliziotto sembra far tornare energia al confine di contatto fra loro: la rabbia, ma anche la preoccupazione può trovare sfogo e scongelare ciò che si era cristallizzato nel tempo. Lentamente si può far spazio alla comprensione di un dolore che la morte di Michela sembra riportare a galla e il gesto finale delle mani che si toccano lascia trasparire la tenerezza ancora possibile, anche all’interno del loro rapporto.


Terapia in pillole

La relazione terapeutica è incontrare l’altro e lasciarsi trasformare dalla relazione

Il discorso del re

di Tom Hooper

Inghilterra, anni ’30 del secolo scorso, il duca di York, secondogenito del re Giorgio V d’Inghilterra, è costretto ad affrontare il suo problema di balbuzie e ad accettare l’abdicazione del fratello, legittimo erede al trono, assumendo la responsabilità di un ruolo così significativo. Sullo sfondo, un’Europa che vede l’avanzata di Hitler e del nazismo e teme l’entrata in guerra.Per “guarire”, per risolvere il sintomo, il futuro re decide di farsi aiutare da un logopedista e l’intero film è costruito intorno al rapporto tra questi due uomini e alla relazione di cura che lo caratterizza. Si tratta di una relazione intensa, non sempre pacifica, fatta di fiducia da conquistare e rischi da correre, qualcosa in cui possiamo rintracciare alcune caratteristiche della relazione terapeutica in PdG.L’inizio di ogni percorso di cura conosce un tempo che precede l’incontro, un prima, il momento in cui chi sta male è costretto a confrontarsi con un disagio di cui si avvertono i segnali. A questo punto, nel tentativo di stare meglio, il paziente tenta diverse strade, prova rimedi di vario tipo con esiti più o meno soddisfacenti finché non approda, a volte come ultima decisione, alla psicoterapia. La scelta spesso è guidata e sostenuta da una persona vicina: nel film questa funzione è interpretata dalla moglie che si assume il compito di cercare il nominativo del terapeuta e di accoglierne le condizioni. Nell’esperienza reale si tratta di un contatto iniziale che avviene spesso per telefono, dopo che si è raccolta qualche sommaria informazione sul terapeuta, sulla sua formazione, su ciò che di lui pensano amici e conoscenti. Ma il momento cruciale si realizza quando avviene l’incontro vero e proprio, con un luogo, un volto, una voce. Si tratta di un momento delicato, spesso carico di preoccupazioni e domande da parte del paziente e di curiosità e fiducia per quanto riguarda il terapeuta. Durante i primi passaggi entrambi i soggetti si avvicinano e stabiliscono una prima interazione all’interno della quale è possibile già far emergere alcune condizioni iniziali: si adotterà il lei o il tu, ci si chiamerà per nome, si concorderà insieme la frequenza delle sedute. Nel film la decisione audace del logopedista Lionel di poter chiamare Bertie il proprio interlocutore esprime la sua intenzione di definire la relazione: né principe, né re, ma un uomo che sta cercando chi è e chi vuole diventare. Questo sembra risaltare come il filone che anima la storia del film, ma al tempo stesso questo rappresenta la finalità più significativa di ogni agire terapeutico. Se è vero che molti percorsi originano dall’affacciarsi di un sintomo che chiede di essere spiegato, il lavoro più impegnativo e pregnante emerge quando è possibile dar voce alle domande rimaste sopite nella storia di ognuno. Può un uomo che non ha diritto per nascita di diventare re succedere ad un altro che ne avrebbe i requisiti e che è ancora in vita? Questo è il dubbio profondo che si pone Bertie, mentre si trova a dover sostituire il fratello che vuole rinunciare alla carica. La domanda cela le insicurezze di un uomo, le sue ansie rispetto alla possibilità di poter assumere il governo di una nazione in un frangente così delicato. Paradossalmente è il logoterapeuta senza titoli accademici che può legittimare chi titolo non ha: tutto ciò sembra dare risalto non certo alla possibilità di operare senza professionalità o studi accreditati; l’accento si pone, invece, sull’ autorevolezza che nasce e si ricrea all’interno di una relazione talmente intima e profonda da innescare un profondo cambiamento. Questa diventa, allora, la metafora dell’esperienza trasformativa che avviene durante il percorso terapeutico: la persona cambia il proprio modo di guardare se stesso e il terapeuta, a questo punto, può diventare “più familiare” dei familiari stessi: nel film, ad esempio, Lionel otterrà il permesso di accedere durante l’incoronazione al palco principale destinato appunto ai parenti più stretti.Il film consente anche di rappresentare l’evoluzione nel tempo dell’intero percorso terapeutico, che conosce a volte fasi in cui la relazione si interrompe e momenti in cui si torna a chiedere nuovamente sostegno al terapeuta; episodi in cui si può esprimere la propria rabbia e la propria insoddisfazione e altri in cui si sente il bisogno di dire grazie per il cammino percorso insieme.Ma il momento culminante del film, che coincide con il discorso radiofonico pronunciato dal neo eletto re, costituisce una toccante rappresentazione del processo terapeutico. “Dimenticate il resto e ditelo solo a me!”. Queste sono le parole di Lionel per incitare Bertie a pronunciare le sue parole senza preoccuparsi della moltitudine di gente in ascolto: al tempo stesso esse corrispondono all’invito che ogni terapeuta può rivolgere al proprio paziente perché possa esprimere nel “qui ed ora” della seduta ciò che da sempre ha conservato nel silenzio della propria storia e qui sta la possibilità di una riedizione delle proprie trame narrative.


L’idea della cura come possibilità di esprimere il non detto che crea disagio

Il nome del figlio

di Francesca Archibugi

Francesca Archibugi propone con questo film un riadattamento originale di una pièce teatrale francese, offrendo uno scorcio suggestivo e tipicamente italiano, di una generazione di adulti, in bilico fra i legami del passato e le transizioni verso il futuro.Fratello e sorella, Paolo e Betta Pontecorvo, famiglia ricca e di sinistra, conservano tra i loro ricordi d’infanzia una magnifica villa sul mare in Toscana, un padre potente, intellettuale comunista, che soffrì della propria condizione di ebreo, ora scomparso da anni, una madre, tutt’ora vivente, donna, affascinante, raffinata e gaudente: intorno a loro ruotano Sandro, marito di Betta, e Claudio musicista enigmatico, da sempre loro amici, legati da un forte affiatamento quasi fraterno per il fatto di aver condiviso tante esperienze insieme in questa residenza estiva, tutt’ora avvolta di fascino e nostalgia. Si aggiunge al quartetto Simona, moglie di Paolo, che lui sembra esibire per l’aspetto avvenente: si tratta, in realtà, di una donna non superficiale, che, provenendo da un ceto sociale inferiore a quello dei Pontecorvo non ha smesso di lottare, ma anzi ha scritto un romanzo attraverso il quale è diventata quasi un tormentone televisivo. Ora è incinta e l’occasione della scelta del nome del figlio in arrivo costituisce l’espediente narrativo per far attivare la discussione durante una cena a casa di Betta e Sandro. Le prime immagini sono, infatti, accompagnate in sottofondo dalla intervista a Simona, dal suo colloquiare spontaneo, immediato, infarcito di parole dialettali, mentre gli altri personaggi appaiono sulla scena nei loro primi movimenti, stentati, rigidi e a tratti interrotti: Betta, intenta a preparare la cena, unisce i gesti del cucinare e dell’accogliere gli invitati con oscillazioni del corpo e saltelli nell’intento di sfruttare quelle operazioni per mantenersi in forma; Sandro distoglie lo sguardo e si china a twittare o fotografare; Paolo, entra zoppicando per giustificare ai passanti il parcheggio dell’auto in area per handicap ed esibisce con teatralità la bottiglia di vino costoso. L’esperienza corporea, il sé dentro la pelle, secondo la psicoterapia della Gestalt, lascia emergere il senso di integrazione con le esperienze precedenti e la possibilità di affidarsi all’ambiente per incontrare l’altro; quando la fluidità si interrompe per paura, incertezza rispetto al proprio modo di percepire chi sta accanto, anche il corpo si arresta e cerca altre modalità. Confesserà Claudio alla moglie: “Quando tu non mi capisci io penso e twitto in continuazione”. Proprio queste interruzioni nei movimenti sembrano descrivere uno sfondo particolare, da cui pian piano si stagliano i vari personaggi, mentre lo scherzo inziale di Paolo, con il quale accentra su di se l’andamento della serata, sembra provocare e perturbare questo mondo: la supposta scelta per il bambino in arrivo di “Benito”, come nome con connotazioni politiche e simboliche altamente provocatorie, lascia, infatti, emergere le reciproche precomprensioni: Betta si presenta come la sorella al servizio perenne e vigile del benessere di tutti i membri del clan; Sandro, suo marito, riuscito con una spinta, da parte del potente suocero, a diventare docente universitario, è attualmente dipendente dai social -networks e fedelissimo membro del sopracitato clan di cui ha introiettato lo spirito originario; vive con lei e i loro due bambini, svegli, attenti e sinceri in una ex casa popolare romana trasformata da migliaia di libri in casa snob radical-chic dove si percepisce un atmosfera borghese; Paolo che, per reazione ad un codice famigliare che non voleva condividere, ha inseguito senza nascondersi la ricchezza e si è ribellato al ruolo che gli era cucito addosso e Claudio, che raccoglie le confidenze di tutti, senza rivelare aspetti significativi della sua vita privata al punto che tutti lo credono gay. Questo nome inaccettabile diventa lo spunto per farci conoscere tutti i protagonisti, per far rivelare a ognuno di loro pensieri mai comunicati e per dar vita al valzer dei non detti o dei non visti, di ciò che è indicibile, o per dirla con le parole di Merleau – Ponty “attraverso il suo l’invisibile che diventa visibile”. I personaggi in gioco sembrano dar voce e corpo al dilemma Schopenhaueriano dei porcospini che tanto più si avvicinano tra loro, tanto più probabilmente si feriranno, nello sforzo complessivo di raggiungere la giusta distanza. Forse Simona, unica figura estranea al clan, può provocarli con la sua immediatezza e restituire l’idea della cura come dicibilità: l’espressione e la narrazione diventano esperienze in grado di restituire vitalità e spontaneità quando le relazioni forniscono un buon sostegno, partendo dal presupposto che il disagio risieda spesso nel non detto generato dall’isolamento e da ciò che resta chiuso nel cuore. Non a caso sono le sue stesse parole ad accompagnare le ultime scene con l’immagine del neonato che si rivela essere femmina e riunisce di nuovo intorno a sé tutti gli amici, ora forse più vicini dopo l’esperienza di aver recuperato insieme una nuova autenticità.